Musicoterapia, Ippoterapia, Danzaterapia, Cromoterapia e Medicina affettiva: una precisazione metodologica *

 

Renato Gentile

 

 

Negli ultimi periodi si è assistito ad un proliferare di interventi riabilitativi che hanno assunto denominazioni tali da stimolare la curiosità generale degli addetti ai lavori e non. Tali denominazioni, che propongono vere e proprie “terapie”, spesso non sono accompagnate da un supporto teoretico o metodologico di fondo e lasciano molto spazio all’improvvisazione di chi se ne fa promotore. Altrettanto spesso quindi viene disattesa la definizione dei parametri di misura; la natura delle variabili chiamate in causa, le loro caratteristiche peculiari; l’eventuale relazione che queste devono stabilire con il comportamento. In pratica viene a mancare il controllo delle dinamiche in gioco. Da qui, a pieno diritto, un qualsiasi miglioramento del paziente conduce l’operatore a considerazioni ottimistiche, arbitrarie, sulla validità delle (presunte) variabili messe in atto e sulla procedura impiegata. Ma: quel miglioramento osservato, all’azione di che cosa è dovuto? Quale variabile ha agito? Quale procedura ha funzionato? Come è stata controllata la metodologia di studio? Come riprodurre quelle condizioni? Come studiarle in laboratorio? Sono domande che spesso invece di ricevere una risposta suscitano una forte reazione emotiva nel promotore della terapia. In fondo non si tratta di un metodo ma di uno strumento, ma questo viene altrettanto spesso confuso e mistificato. Non nascondiamo il fatto che, in alcuni casi, si siano registrati evidenti miglioramenti, quello che ci interessa sapere è che cosa e come ha funzionato oltre, naturalmente, ad avere una misura di confronto con le riabilitazioni spontanee.

Vista la necessità di avviare nuove procedure di intervento, soprattutto con pazienti in stato di coma, credo che sia arrivato il momento di chiarire e definire taluni presupposti necessari per avviare una metodologia di studio, che ha come variabile indipendente la stimolazione sonora.

Le procedure di stimolazione e/o riabilitazione cognitiva di un soggetto in particolari condizioni di salute, devono agganciarsi necessariamente alle conoscenze (sociali, culturali, emotive, affettive, comportamentali e cognitive), che quella determinata persona possiede. Tra queste conoscenze possiamo includere i suoni e la musica in senso ampio. Un bambino di pochi anni, generalmente, possiede un ampio patrimonio musicale acquisito incidentalmente: guardando un cartone animato, ascoltando la ninna-nanna della nonna, la radio che la madre ha sintonizzato, la sinfonia che proviene dallo studio del padre che sta lavorando in completa distensione. Questi stimoli diventano patrimonio “culturale” del soggetto in quanto si possono diversificare, sia per quantità, sia per qualità. L’evento musicale può rappresentare un modulo di interazione culturale, sociale, uomo-ambiente; può anche acquisire una qualificazione emotiva nella storia personale del bambino, ma può assumere una valenza neutra e rimanere al di fuori di determinati processi culturali. E’ una possibilità di sviluppo tra tante possibili.

Esporre una persona, in questo caso un bambino o un paziente, ad eventi musicali, il più delle volte scelti in maniera arbitraria, non significa fare musico-terapia. Pensare di ottenere una facilitazione (modificazione), “spontanea”, dovuta cioè alle proprietà dell’evento musicale in sé, non significa niente altro che affidarsi al caso che, come sempre, nella ragione almeno del 5 per cento, funziona sempre. E funziona altrettanto bene l’effetto delle aspettative e l’effetto placebo. Il problema è che la conoscenza di queste “leggi” del comportamento non sono note, o sono magicamente disattese, dai “promotori terapeutici”. Pensare, credere e sostenere che la musica lanci al paziente dei messaggi interiori, subliminari, di valore certo ed assoluto, di conoscenze ataviche per mettere in atto strategie catartiche atte a sovvertire paure ancestrali, significa fare filosofia della terapia. In questo caso il nome di musico-terapia, dove il termine terapia diventa improprio nell’accezione classica, può avere senso. Sotto questo profilo infatti, non esiste un riferimento operativo ma speculativo. Il problema è che da speculativo (filosofico) diventa materiale (economico), con forti vantaggi per il conto corrente del terapeuta.

Questa precisazione non vuole attaccare il lavoro, la buona fede e la credibilità dei colleghi, ma vuole solamente ribadire che la conoscenza deve seguire un metodo, quello collaudato di sempre, il metodo delle scienze naturali. Ormai c’è pieno accordo sul metodo con il quale indagare il comportamento umano, nessuno crede più agli dei dell’Olimpo, ai chiromanti ed all’astrologia. Nella terapia e durante la terapia, qualcosa funziona sempre (l’azione dell’agente placebo lo dimostra), bisogna quindi accertarsi, con un buon margine di probabilità,  del che cosa sta funzionando. E questo, per la ricerca, non è poco.

 

 * Introduzione tratta dal progetto “Riabilitazione Post Stroke”

   Presentato al Convegno di Messina nel 1997

 

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