Stefania Bertani

 

Il packaging

 

Sebbene una qualche forma di packaging1 sia sempre stata utilizzata per contenere e proteggere i prodotti, negli ultimi due secoli si è verificato un grande sviluppo e oggi, soprattutto in risposta alla domanda commerciale, il packaging è infinitamente più sofisticato e sviluppato che in qualsiasi altro periodo della sua storia. Nel moderno mondo delle reti di trasporto la distribuzione e la vendita al dettaglio dipendono completamente dal packaging, mezzo necessario per muovere e proteggere le merci nel passaggio dal luogo della produzione a quello del consumo.

La confezione di un prodotto, per certi versi scontata, opportunamente corredata può diventare uno strumento d’informazione, un media pubblicitario portatile e quindi parte del prodotto stesso, ampliando notevolmente la funzione primaria del packaging, che rimane sempre quella di contenere e di proteggere.

Le origini del moderno packaging si possono far risalire alla fine del Diciottesimo secolo quando la Rivoluzione Industriale introdusse massicci cambiamenti nell’industria manifatturiera. Mentre prima di questo grande evento storico la maggior parte dei processi di produzione era basata quasi esclusivamente sul lavoro manuale e sulla produzione limitata di merci, l’introduzione della meccanizzazione su larga scala consentì la produzione di quantità sempre più notevoli di articoli.

Da ciò nacque l’esigenza di conservare, proteggere e differenziare il prodotto: si svilupparono soprattutto scatole di metallo, più adatte del cartone alla vendita di merce deteriorabile – come biscotti o pasticceria – per la quale era necessario un elevato grado di protezione.

Al volgere del Ventesimo secolo le tecniche di produzione si erano tanto sviluppate da consentire la realizzazione di contenitori in ogni forma e materiale, utili non solo a vendere il prodotto ma capaci di rispondere a nuove esigenze, a modificare la propria immagine in relazione alle condizioni socioeconomiche contingenti e all’orientamento dei diversi movimenti estetici.

L’involucro può essere definito una “ricerca di forme tridimensionali, capaci di contenere in maniera opportuna, funzionale ed estetica”2  un bene destinato alla vendita; ma i termini opportuno, funzionale ed estetico assumono nel corso del secolo differenti significati.

All’inizio del Novecento si chiede alla confezione di proteggere il contenuto durante il trasporto e di presentarlo all’ipotetico acquirente con un vestito elegante, che ne esalti la forma e soddisfi il desiderio visivo. La bellezza è una prerogativa assolutamente necessaria per l’involucro che, lungi dall’essere considerato entità comunicativa, viene sentito ancora come un oggetto totalmente indipendente dal contenuto: l’uno da consumare, l’altro da collezionare.

La situazione registra un primo mutamento intorno agli anni Trenta, quando gli Stati Uniti, già sviluppato un mercato e un consumo di massa, cominciano a guardare con maggior interesse il settore produttivo e pertanto anche il packaging riceve un’attenzione prima sconosciuta da parte di alcuni designer, come Raymond Loewy3  che operano direttamente in questo settore. E’ un cambiamento sottile, ma importante, perché la confezione viene considerata per la prima volta nella sua apparenza, ossia in quell’aspetto appositamente progettato per vendere meglio un prodotto, senza nessun’altra finalità.

Nella realtà commerciale è entrato un nuovo venditore, un silent salesman, come recita una definizione d’oltreoceano, un soggetto non dotato di parola, ma pronto a lanciare messaggi nel circuito linguistico e abile a farsi capire.

La vera trasformazione che investe il mondo del packaging, mutandone le funzioni in maniera abbastanza radicale, risale al dopoguerra e in particolare agli anni Cinquanta, momento in cui anche l’Europa conosce il consumo di massa e soprattutto i sistemi moderni di distribuzione, tra i quali è senza dubbio la vendita self-service a modificare la realtà dei prodotti, che hanno il dovere e il diritto di possedere una confezione per entrare nel circuito commerciale.

Merce, acquirente, luogo di vendita e produttore sono i soggetti del mercato, tra i quali si vanno ora ad instaurare nuovi e differenti rapporti: al centro del sistema c’è la confezione che, da una parte cerca il dialogo diretto con il consumatore, bisognoso di rassicurazione perché ha perduto ogni contatto diretto con il luogo e i soggetti di produzione, dall’altra risponde alle esigenze distributive, ai problemi d’immagazzinamento e disposizione dei prodotti nel punto vendita.

Inoltre se le merci aumentano in termini quantitativi necessitano di un tratto distintivo, funzionale o estetico o di entrambi, per essere riconoscibili tra la folla di prodotti che animano gli scaffali dei supermercati.

E’ a questo punto che l’imballaggio comincia ad esercitare funzioni differenti: secondo Philip Kotler4 protezione ed economia - strettamente legate alla realtà produttivo-distributiva dell’azienda -  non scindibili da comodità e promozione -  più vicine alla sfera d’interesse del consumatore – che tendono ad acquistare un ruolo sempre più pregnante attirando l’attenzione attraverso soluzioni innovative ed efficienti.

La necessità di proteggere il prodotto è la motivazione originaria che ha provocato la nascita di un embrionale imballaggio, trasformatosi poi in uno strumento distributivo quando la produzione di massa ha reso accessibili consumi una volta esclusivi; una funzione ormai nascosta nella realtà consumistica che considera acquisita la circolazione d’ogni tipo di merce.

L’aspetto economico riguarda ovviamente il costo dell’imballaggio che non dovrebbe incidere in maniera eccessiva sul prezzo finale del prodotto, anche se esistono articoli d’alta gamma (e non solo) sfuggenti a questo requisito: puntare su una confezione che arrivi a superare il valore del prodotto significa cercare in essa maggiori probabilità di vendita con lo scopo d’abbattere una concorrenza di pari livello o d’attribuire al prodotto un prestigio maggiore di quello che effettivamente possiede. Un esempio senz’altro efficace è rappresentato dalla bottiglia in vetro blu dell’acqua Ty Nant (fig.1): un’acqua scozzese simile a tante altre in commercio che ha avuto la fortuna d’essere protagonista di una straordinaria operazione di marca, dovuta ad un’industria italiana abile nell’acquistare la fonte e nel ricercare un packaging capace di accrescere il valore del prodotto. Ma, fascino a parte, resta soltanto acqua, pur costosa come un vino, che ha trovato nel colore della bottiglia un elemento distintivo e accattivante. Se si dovessero rappresentare in un grafico i costi destinati alle confezioni negli ultimi anni, si presenterebbe davanti ai nostri occhi una linea in continua crescita, perché il tempo, l’attenzione, la ricerca destinati a questo settore hanno conosciuto un’ascesa tale che oggi non si può pensare d’introdurre sul mercato un oggetto senza imballaggio.

Il packaging, cui possono essere conferite forti connotazioni di praticità, è certamente uno degli strumenti principali attraverso il quale è possibile assecondare l’esigenza di un consumatore che ha scelto la comodità come prerequisito per l’accesso a più elevati livelli di benessere: quanto, però, quest’attenzione alla praticità dipenda dalla richiesta dei consumatori e quanto corrisponda ad un’esigenza di diversificazione delle aziende è difficile da dire.

Vale la pena soffermarsi sull’aspetto della comodità in quanto il  mercato odierno ha prodotto e continua quotidianamente a creare soluzioni nuove e differenti per offrire garanzie a lungo termine sulla qualità del prodotto, per trasformare il rituale del pasto in un atto tanto funzionale quanto veloce e per  rendere il consumo “possibile “ in qualsiasi momento.

Contenitori resistenti, facili da trasportare, leggeri, sicuri, d’ingombro ridotto riscuotono in genere presso il pubblico un’accoglienza positiva: il brik, introdotto con un alimento ben posizionato a livello simbolico come il latte, ha presentato indiscutibili vantaggi rispetto al vetro, ottenendo successo anche con altre bevande – il succo di frutta proposto in formati adatti all’uso familiare o al consumo singolo – e conquistando prodotti ricchi di storia e tradizione come il vino.

I contenitori-portata in genere in alluminio offrono, ben separate, tutte le pietanze di un pasto completo (fig.2): l’idea deriva dai set di servizi di bordo per gli aerei, esempi di massima funzionalità operativa nati spesso dalla mente di qualche designer, come Joe Colombo che realizza intorno agli anni Settanta quelli per l’Alitalia (fig.3).

Il prodotto-servizio (le verdure surgelate, la polente precotta, il purè istantaneo, l’insalata già tagliata e lavata) ha l’intelligente scopo non di annullare, ma di semplificare i compiti di chi cucina;  il kit, scatola con diversi ingredienti per la preparazione di pizze, torte o focacce, offre precise indicazioni in modo che anche la mano meno esperta in cucina non possa sbagliare o la confezione che “è pentolino e subito tazza per minestre liofilizzate alle quali aggiungere acqua calda; è miscelatore e subito bicchiere per succhi confezionati asetticamente; si trasforma da teglia in vassoio e poi piatto per cibi che si possono scaldare o cuocere in forni a microonde…che.. diventa pentola per lo scongelamento e la cottura e vassoio di portata per la messa in tavola e piatto per la consumazione di alcuni prodotti surgelati”5

La tecnologia è diventata, oggi, regina nella ricerca del piatto pronto ideale per la cui consumazione non serve né l’esperienza né l’attrezzatura di una cucina: come la cioccolata o il caffè che si scaldano premendo il fondo dell’involucro in cui sono contenuti, permettendo di portare in tasca una bevanda da consumare, sempre bollente, quando se ne ha necessità6 (fig. 4).

Allo stesso modo le chiusure che permettono di riutilizzare un prodotto non completamente consumato stanno ottenendo uno straordinario successo in campi molto diversi, dai sistemi d’erogazione di cui sono dotati pacchetti di sale o zucchero ai numerosi dispenser studiati per confezioni di caramelle o chewin-gum: la scatola di Tic Tac con linguetta ad incastro, o quella  in latta dei tabù dotata di un doppio dispositivo rotatorio a scorrimento o tutti i pacchetti in commercio (Golia, Ricola, Daygum, Choralit…) forniti di una linguetta apri e chiudi (fig. 5).

E’ l’accessibilità al prodotto, probabilmente l’aspetto su cui più recentemente si sono concentrati i designer, che arriva a toccare la pura tecnologia laddove vengono proposte soluzioni all’avanguardia come il tappo del Gatorade (fig.6): un vero capolavoro d’ingegneria che permette di aprire e chiudere la bottiglietta con un semplice gesto e soprattutto con una sola mano, eliminando la fatica e i secondi spesi nell’avvitare il classico tappo di tutti i contenitori per bibite.

Resta l’aspetto promozionale, realizzato spesso attraverso fattori estetici, formali ed emotivi aventi lo scopo di proporre la confezione come canale di collegamento tra i messaggi evocati dal prodotto e i valori di riferimento del consumatore. L’imballaggio, pertanto, non deve annunciare soltanto cosa contiene ma svolgere più complesse funzioni simboliche e semiotiche, dal cui corretto equilibrio dipende l’efficacia della comunicazione. Cristina Galdabini e Gian Maria Gros-Pietro7 distinguono le funzioni simboliche, che attraverso un aspetto concreto della confezione vogliono riferire un concetto astratto attribuibile al prodotto, da quelle semiotiche relative semplicemente ad un elemento della struttura comunicativa destinato ad occupare uno spazio privilegiato nella presentazione del prodotto.

Nel primo caso si può far riferimento all’uso di un colore disposto a suggerire uno status sociale (l’oro per indicare prestigio), o alla scelta di un materiale che nell’immaginario collettivo abbia una connotazione positiva (il vetro per suggerire freschezza e genuinità).

Nel secondo caso vanno considerate tutte le situazioni in cui la confezione o parla del prodotto riproducendone alcune caratteristiche (i vasetti di marmellata con le fotografie dei frutti da cui è stata ricavato il contenuto), o mostra qualche priorità indipendente dal contenuto (la facilità d’apertura di una scatoletta di tonno può essere un fattore determinante per la vendita), o coinvolge l’emotività del destinatario risvegliando in lui ricordi nostalgici (le buste di minestre e zuppe che presentano campi coltivati o distese di verde rappresentano una realtà ambientale ben lontana dal presente e facilmente desiderabile).

Design e immagini hanno in molti casi costruito la base di solide identità aziendali: nel contenitore vengono riprodotti forme, colori, disegni già usati nei cartelloni pubblicitari, sulle casse o sui mezzi di trasporto del produttore -  la Liebig, che commercializza l’estratto di carne, diffonde sulle confezioni e sui cartelloni  la firma di Justus Von Liebig, il suo fondatore, mentre la Barilla imprime lo stesso marchio (ovale rosso con il nome in bianco) sulle scatole di pasta e sui furgoni usati per distribuirla.

Questo nuovo ruolo del design nell’ambito della vendita al dettaglio ha rappresentato il fondamento di quello che noi oggi riconosciamo come la grande e complessa industria della pubblicità, ma mai come oggi è stata più accanita la competizione per guadagnarsi uno spazio e per poter attirare l’attenzione del consumatore sui prodotti nel punto vendita:  è proprio il packaging che ha lo scopo di comunicare al consumatore il messaggio giusto.

 

 

 

 

Funzionalità e comunicazione

Il packaging riveste il ruolo più importante nell’identità del prodotto, in quanto contiene tutte le informazioni necessarie o significative relative ad esso e rappresenta talvolta l’unico strumento di affermazione sul mercato, ricoprendo, quindi, una notevole importanza in termini di successo commerciale.

Questo aspetto è di competenza primaria, benché non esclusiva, della grafica che dichiara immediatamente il nome del prodotto, identifica la marca d’appartenenza e rappresenta il contenuto.

“Quando i produttori sono diversi e i prodotti sono più o meno gli stessi, come di fatto accade nell’odierna economia di scambio”8, il marchio si trasforma in testimone di fedeltà o “diventa per così dire una protesi, che viene a colmare una manchevolezza dell’oggetto in quanto merce”9; Maldonado si sofferma in particolar modo sulla debolezza degli oggetti, costretti sempre più spesso a chiedere al marchio di colmare il deficit d’identità da cui sono affetti. Il marchio, sempre visibile sul contenitore, diventa valore aggiunto, simbolo di riconoscimento, distinzione, certezza per un consumatore sempre più disorientato di fronte alle proposte del mercato, dove “marche generiche”10, ossia prodotti anonimi riuniti sotto ad un’unica firma (i diversi prodotti Star: dadi, sughi, minestre…), si mescolano a “marchi ad ombrello”11 che sviluppano all’interno del marchio originario una serie di nomi propri capaci di diventare talvolta assolutamente autonomi (i Ringo della Pavesi). La marca diventa immagine, per costruire la quale bisogna fare riferimento ad un sistema variamente articolato dove l’imballaggio, collocandosi tra aspetti sociali, economici e comunicativi, arriva a qualificarsi come rappresentativo di tale marca: occorre che i suoi diversi aspetti costituivi mostrino uniformità e siano ugualmente opportuni nel processo di significazione cui si sottopongono gli oggetti.

Richiamando l’insegnamento della scuola greimassiana si possono identificare tre livelli nel processo di significazione: il primo, assiologico, dona valore alla marca e pertanto diviene nucleo della sua essenza, il secondo, narrativo, illustra come i valori già acquisiti possano essere raccontati, infine il terzo, discorsivo, “abbellisce” i racconti con le sensazioni umane.

A questo punto non appaiono più casuali i modi scelti per la rappresentazione dei prodotti, che devono offrire all’istante un’immagine pronta non solo a riflettere il contenuto ma anche a soddisfare la ricerca – spesso emozionale – dell’acquirente: la confezione attraverso la grafica racconta non necessariamente il prodotto reale, ma quello che era prima di essere trattato industrialmente o quello che potrebbe diventare dopo una manipolazione successiva da parte del consumatore.

Cibi liofilizzati o precotti necessitano di un’immagine fortemente evocativa che parli degli ingredienti del prodotto e della loro origine o presenti la pietanza a preparazione ultimata. L’involucro degli omogeneizzati mostra la frutta da cui sono stati ricavati e in genere offre indicazioni riguardo ai metodi di coltivazione, le buste delle minestre liofilizzate presentano succulenti piatti in cui si dovrebbe trasformare la polverina in esse contenuta eseguendo correttamente tutte le fasi di preparazione. Lo stile di queste immagini si potrebbe definire iper-realistico nell’intrinseco senso etimologico di figure che non hanno come scopo solo quello di rappresentare un oggetto concreto, ma di tradurre visivamente una realtà già modificata. “E nessuno si meraviglia poi troppo che il piatto confezionato non assomigli più all’idea che tradizionalmente associamo al suo nome, nessuno si sorprende che il tonno non assomigli al tonno, che i sofficini di pesce o carne siano strani tondi gialli, e così via. Il richiamo dell’atto del mangiare viene allora attraverso la rappresentazione in copertina della confezione. Nonostante ormai non vi sia nessun rapporto tra la figura esterna e il contenuto della scatola la prima richiama il fantasma del cibo nella sua condizione ideale. Una sorta di prototipo del piatto come dovrebbe essere.” 12

Esistono altri casi in cui è la forma a creare una forte immagine di prodotto tanto da identificarsi con esso: quella che Lorusso13 definisce efficienza psicologica della forma, distinguendola dall’efficienza funzionale -  da una parte imballaggi semplici e dalle dimensioni costanti per favorire il trasporto e la distribuzione, dall’altra contenitori in grado di attirare l’attenzione del pubblico, facendo leva su valori emozionali o creando particolari connessioni con gli oggetti scelti come riferimento.

La bottiglia in vetro dello Yoga Premium (fig. 7) riproduce nella sagoma un flacone farmaceutico14 per suggerire l’idea di un prodotto avente qualità nutritiva tanto alta da poter competere con una medicina: il legame dal punto di vista emozionale funziona e la forma della bottiglia conferma visivamente con l’essenzialità della linea disegnativa e il rifiuto della decorazione la comunicazione assolutamente razionale propria dei contenitori farmaceutici, che in genere s’ispirano al design “pulito” e rigoroso della Bauhaus.

  I cereali Cheerios (fig.8) presentandosi con una confezione ispirata ad un pallone da calcio di cui sono riprodotti anche colori e textures, diventano un prodotto ludico capace di trasformare il momento critico della prima colazione in un gioco per grandi e piccini. L’operazione è forse concettualmente simile al significato della tecnica Pop che prende, per così dire a prestito, dal consumo delle masse alcuni oggetti e li trasforma in opere d’arte allo scopo di restituire loro quel significato perduto nell’effimericità del reale. Si tratta di una possibile rivalutazione di un vasto materiale immaginifico che ci circonda sotto l’aspetto della suppellettile, dell’oggetto d’uso comune, del cartellone stradale, del manifesto…allo stesso modo il pallone, diventato contenitore per un prodotto destinato soprattutto ai bambini recupera la possibilità di regalare quella dimensione ludica spesso offuscata dalla prepotenza dei giochi tecnologici.

L’imballaggio genera così legami emozionali tra contenente e contenuto fino ad un singolare “gioco di specchi” nel caso dell’ “identificatore di prodotto”15: il Toblerone (fig.9) con quell’inconfondibile forma pare aver suggerito la realizzazione di un packaging dall’originale sezione triangolare, vicino probabilmente nel design essenziale alle linee e alle scelte progettuali del Razionalismo, movimento nato e diffusosi in Europa nel secondo decennio del Novecento - forse  casuale ma significativo che l’anno di nascita della confezione sia il 1918. Non stupisce che con un’immagine così forte la confezione sia mutata ben poco nel corso del secolo, anche se con l’introduzione di nuovi gusti alla gamma Toblerone sono stati aggiunti altri colori di sfondo per differenziare i vari tipi.

Oltre a grafica e forma oggi entra a far parte della progettazione di un pack anche la scelta del materiale, che offre al designer numerose e differenti soluzioni sia in termini di praticità che di visibilità e comunicazione.

Valeria Bucchetti16 sostiene che quest’ampia possibilità nel campo delle scelte, quest’allargamento delle prospettive elevi la tecnologia a significante del prodotto, perché un determinato materiale diviene il riflesso di un messaggio da trasmettere non più la risposta ad un problema funzionale da risolvere. Le fa eco Frida Doveil: “lo svilupparsi di un’attenzione maggiore alle qualità materiche … sembra prefigurare un nuovo statuto di senso per i materiali, estraneo per la prima volta alle ragioni oggettive e alle classificazioni funzionali, tutto spostato verso un piano di riferimenti semantici e di linguaggio”17.

Il vetro, stabile, igienico, riciclabile, è sincero e disponibile a far parlare il contenuto, donando forte identità ai prodotti attraverso le forme ardite e i colori persuasivi con cui può essere presentato.

La carta e il cartoncino rispondono ad alcuni dei megatrends18 che da più lati coinvolgono il mondo del packaging: ecologicità, facilità d’uso e soprattutto capacità di favorire la comunicazione sia in termini di visibilità che di riconoscibilità sullo scaffale, sia in termini di resa cromatica e di soluzioni estetiche sia, infine, per ciò che riguarda l’alto contenuto informativo e deduttivo.

La banda stagnata è ormai sinonimo di comodità nel facile approccio al cibo in scatola, diventato l’abitudine a cui probabilmente i nostri sistemi di vita non potrebbero più rinunciare, infine “l’eccessivo protagonismo”19 della plastica che con numerose soluzioni applicative e ampie possibilità d’accoppiamento con altri materiali (carta, cellophane, alluminio) offre involucri duttili nelle prestazioni, espressivi negli aspetti formali e capaci di proporre una nuova estetica del quotidiano.

Le innovazioni tecniche che caratterizzano il processo di progettazione e realizzazione rendono il packaging un oggetto complesso capace di controllare diversi frammenti comunicativi e di funzionare come elemento unificatore di vari messaggi: prodotto nell’ambito pubblicitario che parla con le regole linguistico-visive dei media, artefatto comunicativo presso il punto vendita, ossia barriera più o meno osmotica che, pur impedendo un contatto diretto col contenuto, fa conoscere al pubblico il prodotto, infine utensile nello spazio domestico.

Nel primo caso l’imballaggio è attore massmediale, uno dei soggetti più frequenti delle campagne pubblicitarie (intese nelle loro molteplici espressioni: manifesto, stampa, pubblicità televisiva…), all’interno delle quali è arrivato a recitare la parte del protagonista influenzando l’articolazione del messaggio stesso. Valeria Bucchetti parla di diversi gradi di protagonismo20 e analizza, ricavandole da un’attenta osservazione delle campagne pubblicitarie, tre possibili situazioni in cui il ruolo del packaging si potrebbe definire, a mio parere, assoluto, relativo e marginale, in una sorta di scala discendente che vede prima la confezione al centro della scena poi progressivamente collocata a margine.

Nel secondo caso l’imballaggio è artefatto comunicativo, artefatto in quanto identifica “l’insieme dei manufatti (inteso come fatto a mano) e quello dei prodotti industriali come sottoinsiemi”21, comunicativo perché esplicita il significato stesso dell’artefatto che, parafrasando Maldonado22è comunicativo come ogni oggetto creato dall’uomo sia che appartenga al suo bagaglio materiale sia simbolico. Nei sistemi di vendita self-service, oggi la maggioranza,  la capacità del prodotto d’instaurare un dialogo con l’interlocutore trova la massima espressione, considerato che i più, vittime del cosiddetto marketing “degli ultimi cinque secondi”, decidono gli acquisti davanti allo scaffale scegliendo le offerte maggiormente convincenti da un punto di vista seduttivo.

Nel terzo caso la confezione diventa utensile, attiva anche nella fase di consumo e dotata di un plus prestazionale indirizzato a modificarne lo status: da packaging progettati come contenitori da porre in tavola, alle confezioni autoriscaldanti, fino a tutti quegli involucri appartenenti al mondo del “fai da te” ove le istruzioni per l’uso divengono parte integrante del prodotto.

 

 

 

Packaging come racconto

Il packaging è protagonista di un ampio processo di significazione che nel settore alimentare assume un aspetto particolarmente rilevante, in quanto ha a tal punto modificato l’ancestrale rapporto col cibo da lasciare tracce nella psicologia di ogni individuo: oggi esistono cibi che non potrebbero essere quello che sono senza l’imballaggio.

Col pack l’individuo conosce il prodotto conservato e il cibo confezionato, diventati oggi la risposta alle mutate abitudini di una popolazione che è passata dai pranzi contadini del dopoguerra ai pasti consumati fuori casa o addirittura ad economici take-away: bisogni diversi e comportamenti nuovi a cui la ricerca del settore ha sempre dato risposte pronte e funzionali, arrivando in alcuni casi a precedere le esigenze dei consumatori, indovinando o spesso alimentando desideri ancora latenti.

Se si accetta per il cibo il concetto di “riduzione semiologica”23, ossia un codice generalizzato di segni avente un valore assolutamente arbitrario e quindi liberamente interpretabile, diventa interessante analizzare il packaging alimentare perché vi si possono riconoscere non solo i comportamenti ma anche i sogni, i miti in cui crede l’uomo moderno. I miti, però, non costituiscono un contenuto bensì il processo di scambio e di circolazione di un codice, un processo d’assegnazione e di classificazione nel quale la forma è determinante.  Lo stesso Roland Barthes24 nel definire il mito lo identifica in primo luogo come parola, poi come messaggio, il che implica – aggiunge -  che non possa essere né un oggetto né un concetto, bensì un modo di significare, una forma.

“Idee in forma”,  appare una  definizione appropriata per l’imballaggio diventato  il risultato della trasformazione di un segno in immagine, dove i tratti della realtà, i gruppi costitutivi, i modelli dominanti appaiono con la naturalezza e la semplicità della pura constatazione: il whisky per l’uomo di classe, lo yogurt magro per la ragazza a dieta, il piatto precotto per la donna in carriera, la pasta biologica per l’ecologista convinto…

Acquistiamo i cibi spinti dal desiderio di vedere in essi riflessa la nostra personalità. Ma se la confezione è la realtà con cui oggi si pensano e s’identificano i cibi, l’uomo cerca prima di tutto nel packaging quelle emozioni, ormai pluriespanse25, che ha bisogno di sentire e allo stesso tempo di comunicare.

L’imballaggio diventa immagine26 capace di donare un nuovo aspetto al contenuto: il cibo in questo caso che, uguale a se stesso da innumerevoli anni, necessita di nuove presentazioni e d’alternativi accoppiamenti. L’atto del mangiare è forse quello che più concentra sentimenti altalenanti e atteggiamenti contraddittori: piacere incontrollato e rifiuto perentorio in un’etica del nutrimento che tra continue concessioni e a volte inutili rinunce presenta il cibo non più come uno dei simboli primari della sopravvivenza ma come un problema… ancora una volta d’immagine. L’uomo cerca oggi nel cibo una filosofia dell’essere che rappresenti addirittura la sua personalità e il suo modo di vivere: lontano da regimi alimentari di restrizione, supportato da un’eccedenza che non conoscendo limiti porta anche alla selezione, ha avuto la disinteressata libertà d’elevare il cibo ad elemento significante. Ma significante di che cosa esattamente?

Di una società annoiata e assottigliata sulla corda delle emozioni che cerca di trovare negli alimenti, da sempre segno di ataviche abitudini e d’intoccabili tradizioni, un nuovo stimolo.

Qui intervengono gli imballaggi: avvolgono in un prezioso pacchetto il contenuto ormai scontato e cominciano a raccontarlo attraverso un ritratto che, come spesso accade, supera in valore estetico le qualità reali del soggetto.

La confezione, salita sul palcoscenico con gli abiti di scena, non solo racconta le caratteristiche del contenuto ma riesce anche a comunicare l’universo di riferimento in cui è calato e vive il prodotto: messaggi non concretizzabili, fatti di sensazioni e suggerimenti che s’infilano nell’orecchio del consumatore permettendogli d’identificare le merci e di tradurne i valori.

Il packaging dei prodotti alimentari ha in particolare modo il compito di raccontare le qualità dell’alimento, perché c’è bisogno di percepire la freschezza, la genuinità, magari anche il sapore del cibo che si acquista senza vedere, toccare o annusare: la favola dell’antico, per esempio, è stata proposta ormai con mille sfumature, dalle vecchie cascine ai paesaggi incontaminati di un tempo fino agli antichi luoghi di ritrovo e di lavoro – un codice identificativo per tutti quei prodotti che hanno scelto la tradizione come valore dominante (gelati, zuppe, minestroni, biscotti…).

L’imballaggio ha in questo modo costruito una “messa in scena”, ove il consumatore potrà attuare  un dinamico processo d’identificazione, riconoscendosi in uno dei miti proposti dalla confezione o  leggendo nell’immagine del prodotto i segni della propria condizione sociale, dell’età e delle personali scelte di vita.

Un frammento di realtà che racconta la vita quotidiana in maniera sottile, spesso ironica e un po’ sognante, come accade nelle fiabe di cui i media27 – dal sistema pubblicitario fino ai settimanali e ai manifesti – utilizzano lo schema narrativo. Quintavalle, riscontrando come i modelli dominanti nella struttura dei fotoromanzi siano quelli delle fiabe28, suggerisce di estendere il modello a tutti i mezzi comunicativi del nostro sistema culturale: qualificato alla pari di altri mezzi espressivi contemporanei (dal fumetto alla pubblicità), anche l’imballaggio potrebbe allora utilizzare gli schemi espositivi della fiaba.

Perché la ricerca si configuri come dotata di senso basterà individuare alcuni elementi caratteristici del sistema fiaba, riconoscere qualche meccanismo o sentire certe atmosfere…

“Le fiabe hanno sempre il principe salvatore e il diavolo…e anche la crudeltà barbarica per cui il mondo è diviso in buoni e cattivi”29; allo stesso modo l’imballaggio alimentare promette sempre genuinità e freschezza, sapore e gusto sopraffino, nonché benefici effetti salutari. Non è questa reiterazione di un motivo?

E il prodotto non appare forse come un mezzo magico che risolve ogni problema, sostituisce ogni carenza e promette addirittura strabilianti trasformazioni fisiche?

Il consumatore potrebbe allora essere paragonato nel momento in cui acquista il prodotto “giusto” per esaudire un desiderio inespresso, all’eroe che va alla ricerca di un oggetto perduto per colmare una perdita.

Il packaging, infine, non resta a guardare inerme in questa scena personalmente allestita, anzi parla al pubblico con la voce suadente del narratore di fiabe che attira l’attenzione di chi ascolta promettendo il contatto con mondi sconosciuti: il fascino lontano del “C’era una volta”, le atmosfere da favola di paesi lontani, la realtà ordinata dove la felicità finisce sempre per trionfare.

Un nuovo cioccolatino della Milka, Montelino (il nome ha chiare valenze metaforiche) (fig.10), presenta una confezione che, partendo dalla base tipica di un parallelepipedo di quattro lati, sale in maniera regolare per 1/3, poi si restringe improvvisamente fino a terminare a punta. Questa verticalità ricorda una vetta, il pack ideale per un cioccolatino che nella forma riproduce una montagna, dove la cima innevata è resa con l’uso di una diversa qualità di cioccolato (bianco rispetto al corpo scuro). Inoltre l’estremità superiore dell’involucro riprende graficamente il cioccolatino con una punta bianca che ricorda la neve quasi perenne delle vette alpine, mentre la superficie frontale mostra la fedele riproduzione di una vallata accanto alla quale spicca in primo piano il prodotto, calato in un’atmosfera che richiama attraverso chiari stereotipi gli ambienti delle favole.

 I Meridiani della Perugina (fig. 11), invece, sono cioccolatini dalle forme più classiche, destinati ad un pubblico raffinato tanto amante del cacao da ricercare le miscele esotiche di paesi lontani. I nomi impressi sull’incarto dei singoli cioccolatini – Giava, Madagascar, Arriba - rappresentano quelle terre inesplorate che l’uomo civilizzato vorrebbe “riscoprire”, il termine Meridiani evoca le antiche carte nautiche e il packaging in cartone ondulato richiama i vecchi diari di bordo: elementi che evocano, tutti, l’idea del viaggio d’avventura. Non si sente forse il clima dei racconti dei pirati o dei corsari?

E gli esempi potrebbero continuare all’infinito… alla ricerca di tutti i mondi possibili che la fiaba può evocare.

 

Packaging classico

Il packaging alimentare ha acquisito un ruolo talmente rilevante nella vita quotidiana del consumatore che, non solo per soddisfare l’esigenza materiale di nutrirsi ma anche per rispondere ai bisogni e desideri più nascosti, un qualche tipo di imballaggio è diventato praticamente necessario, un elemento spesso scontato del quotidiano.

E’ particolarmente interessante l’analisi di alcuni packaging che si possono definire “classici”: hanno avuto successo per l’introduzione di innovazioni tecnologiche o di design oppure attraverso un marchio forte immediatamente riconoscibile.

Alla prima opzione appartengono forme efficienti, risultanti di un lungo processo di sedimentazione e perfezionamento, pertanto classificabili come archetipi. Il barattolo, il contenitore per le uova, la lattina, forme industriali pressoché identiche da centinaia di anni, nascondono in realtà una costante ricerca dell’essenzialità e della riduzione,che implica una continua e progressiva messa a punto del progetto e dei processi di produzione. Oggetti di uso quotidiano che non seguono le mode o lo styling e non hanno problemi di simboli di classe, hanno avuto successo unicamente perché ben progettati e non importa da chi: “compasso d’oro a ignoti” – come afferma Munari30.

Nel secondo caso il packaging diventa non solo veicolo primario per riconoscere la marca e fissarne l’identità, ma rappresenta un elemento assoluto di riconoscibilità e indice incontrastato d’affermazione presso il pubblico. In questi casi l’imballaggio conduce una vita autonoma nel racconto dei media tramite il proprio alter ego comunicativo: il blu della pasta Barilla, il giallo del Mulino Bianco, la bottiglia della Coca-Cola traducono in immagine la personalità del prodotto tanto da permetterne un’identificazione senza indugi sullo scaffale dopo essere già state memorizzate attraverso il passaggio di una rivista o di una pubblicità televisiva.

 

Il barattolo in latta è un’invenzione tra le più importanti della nostra epoca, destinata a rivoluzionare le abitudini di consumo, rendendo disponibili i prodotti in qualsiasi stagione, permettendo una migliore distribuzione ed evitando gli sprechi. L’idea di conservare generi alimentari in un barattolo di metallo risale ad almeno duecento anni fa, quando Napoleone offrì una ricompensa a chiunque avesse suggerito un metodo valido per conservare il cibo distribuito ai suoi eserciti. E’ Nicolas Appert31 a rispondere alla richiesta, mettendo a punto un sistema di conservazione degli alimenti (in contenitori di vetro) che può essere pienamente sfruttato solo attraverso l’adozione del barattolo in banda stagnata, con cui Peter Durand pensa di sostituire i contenitori in vetro e ceramica fragili difficili da sigillare. La prima applicazione produttiva del sistema risale al 1820, quando l’inglese Bryan Donkin comincia a vendere cibi in scatola all’Esercito e alla Marina, risolvendo gli ingenti problemi di vettovagliamento delle truppe. Anche dai prodotti storici del vicino territorio bolognese32 si ricavano interessanti esempi: la mortadella, consumata dalla metà dell’Ottocento solo stagionalmente per la veloce deperibilità del prodotto, viene confezionata applicando le pratiche di conservazione degli alimenti diffuse in territorio francese e là apprese da un salsamentario locale, Alessandro Forni. Il salume conservato in fresche cantine e tagliato a fette sul tagliere di cucina ora può essere acquistato in grosse scatole di latta stagnata, che grazie al loro continuo perfezionamento conoscono una buona diffusione sul territorio.

La bombola di nebulizzazione, inventata in Norvegia nel 1929, non è prodotta con successo fino al secondo conflitto mondiale quando trova un’inaspettata applicazione come contenitore per liquido insetticida: nascono le “Bugs bombs”, grosse bombole che i soldati usano portare con sé per difendersi dagli attacchi degli insetti, che sono i maggiori responsabili di morte nei bollettini di guerra. Dall’inizio degli anni Cinquanta la bomboletta spray entra nei negozi e diventa familiare al consumatore, introducendo nel mondo del packaging una dimensione completamente nuova.  L’enorme produzione oggi testimonia il successo di questi contenitori, che si sono diffusi in numerose fasce di mercato: cosmetico, farmaceutico, industriale, agricolo, scientifico e alimentare. In particolare il mondo alimentare sta conoscendo una notevole espansione, che vede già popolari negli Stati Uniti oltre a mousse e panna montata, anche olio da cucina, ketchup e mostarda in bombolette spray: cibo pronto per l’uso, facilmente trasportabile e da consumarsi in qualsiasi luogo o momento, come insegna la non-cultura americana della tavola.

Il cartone per le uova rappresenta un ottimo esempio di packaging: funzionale perché rimasto inalterato nel design sin dalla sua prima ideazione negli anni Trenta e comunicativo sia nella scelta della struttura che del materiale utilizzato. Un contenitore cavo – cioè un oggetto in cui l’interesse progettuale è rivolto sia all’involucro che all’invaso33 – dove forma e misura sono strettamente dipendenti dal contenuto, in questo caso un gruppo di sei uova ordinate in due file sovrapposte. La polpa di cellulosa presenta una superficie rugosa e un colore non necessariamente bianco (diversamente dalla carta riciclata per la quale sono richiesti superficie e aspetto bianco), grazie ai quali ha ottenuto e continua a mantenere un notevole successo sul mercato: appare come un imballaggio naturale atto a completare quello dell’uovo in sé piuttosto fragile. Un packaging “spontaneo”, che i produttori più attenti hanno imparato a valorizzare riportando la data di scadenza sul guscio piuttosto che sulla confezione.

La scatola del latte, oggetto tanto comune da non attirare più attenzione, è protagonista di uno statuto quotidiano di gesti che, nonostante non siamo in grado di classificare come tali, si rivelano portatori di senso: quando ogni giorno apriamo una confezione di latte sollevando una delle quattro linguette incollate al cartone e tagliando lungo le linee indicate, non pensiamo certo di esser autori di una metamorfosi, invece stiamo proprio trasformando quell’oggetto in qualcosa di diversamente ma ugualmente utile. Siamo di fronte ad un ottimo esempio di design - come prodotto funzionale - e di packaging assai efficiente ormai entrato nell’uso. Ma una volta c’era solo il latte sfuso che veniva venduto in bidoni e recipienti senza essere sottoposto ad alcun trattamento di sanificazione; il Decreto Regio del 9 maggio del 1929 prevede la  creazione dei primi centri di Pastorizzazione e delle Centrali del Latte, con cui comincia la produzione e la vendita del latte pastorizzato ben identificato dalla confezione, che consiste in una bottiglia di vetro a collo largo sigillata semplicemente con una capsula di stagnola. Nel 1951 l’industria svedese Tetra Pak, fondata in Scandinavia nel 1929 da Ruben Rausing e Erik Akerlund, presenta a Lund tra l’incredulità di tutti gli operatori del latte una confezione in carta a forma di tetraedro: al consumatore si offre una soluzione pratica (il cartone proteggendo il prodotto dalla luce ne prolunga la durata oltre i tre giorni) leggera e funzionale con l’eliminazione del vuoto a rendere. Il tetraedro, diffusosi  in tutta Europa e presto sostituito da una confezione ancor più pratica a forma di parallelepipedo, il Tetrabrik (lanciato nuovamente dalla Tetra Pack in Svezia nel 1963), ha veramente rivoluzionato l’immagine del latte, che entrato tra le confezioni usa e getta perde il vissuto mitico e fantasioso di prodotto genuino proveniente dalla natura. Forse le bottiglie in plastica bianca presenti oggi in commercio nascondono la possibilità di evocare quelle emozioni perdute: ricordano nella forma il bricco in vetro che si lasciava davanti alle porte delle case pronto ad essere riempito da un puntuale lattaio e richiamano nel colore, in una sorta di gioco metonimico, il prodotto stesso quasi a segnalarne visivamente la freschezza.

La lattina da bibita, simbolo incontrastato e incontrastabile della cultura giovanile degli ultimi decenni, si diffonde soprattutto sull’immaginario del “mitico” mondo statunitense: sono stati proprio gli americani a produrre, nel 1885, i primi liquidi conservati in lattina, utilizzando inizialmente contenitori in acciaio con un coperchio a forma di cono sigillato mediante un tappo di sughero “a corona” - lattine con cui nel 1940 la birra viene già venduta negli Stati uniti e in gran parte d’Europa. Poi l’alluminio accoppiato all’ “apertura facile” (la linguetta a strappo), oggi sostituita dalla meno inquinante linguetta non staccabile, ha trasformato la lattina in un fenomeno sia nel mondo della produzione che in quello dei consumatori: ci sono bevande che non possono essere pensate senza la lattina e la lattina per antonomasia viene associata a tutte quelle bevande che identificano un modo di bere  giovane e frizzante, alternativo alla classica tavola apparecchiata.

Siamo alla metà degli anni Sessanta, in pieno boom delle materie plastiche, quando sul mercato francese fa la sua prima apparizione una bottiglia in Pvc d’acqua minerale: un’innovazione in un mondo dominato dalle sole bottiglie in vetro la cui forma era standardizzata e per nulla comunicativa: l’acqua era solo acqua senza marca, senza colore e senza qualità aggiuntive legate ai componenti. L’acqua Uliveto è consigliata agli sportivi perché ricca di calcio, l’acqua Rocchetta suggerisce strabilianti effetti diuretici, l’acqua Levissima “dalla sorgenti di alta quota” – come recita lo slogan pubblicitario che campeggia anche sulla confezione – garantisce una freschezza senza pari, infine l’acqua Vitasnella con lo 0.0002% di sodio promette addirittura un effetto dimagrante.  Ma sono soprattutto le trasformazioni a livello formale a generare interesse, perché il profilo dei contenitori, rimasto invariato da decenni e assolutamente identico per tutte le marche conosce un nuovo sviluppo che arriva a toccare addirittura la tecnologia: la “strozzatura” dell’acqua Vera realizzata rendendo la sezione della bottiglia perfettamente rotonda e rinforzata con una serie di nervature dal profilo sinuoso e dall’orientamento a spirale, è qualcosa di geniale dal punto di vista ergonomico (fig.12).

 

Barilla

Nei supermercati odierni  è familiare a  tutti  il “muro” blu della pasta Barilla, ma non è sempre stato così… Fino alla metà del nostro secolo la pasta era uno di quei prodotti ancora venduti sfusi: l’arrivo dei pacchetti significò protezione, igiene, garanzia di qualità, ma soprattutto comunicazione.

Solo nel 1968 esce una normativa in seguito alla quale il confezionamento della pasta diventa obbligatorio; Barilla, che aveva largamente preceduto questa tendenza commercializzando il prodotto in confezioni chiuse già dagli anni Cinquanta, saluta la  positiva novità con un codino pubblicitario dove una mano cancella un cassetto di pasta sfusa.

Rendendosi conto del forte cambiamento portato nelle abitudini degli italiani, l’azienda crea un fascicolo sull’educazione alla scatola (1956), dove in ogni pagina attraverso diverse fotografie e un linguaggio molto semplice viene illustrato un pregio di questa novità: la scatola è attraente, pratica, conveniente, adatta a proteggere il prodotto, ideale per risparmiare tempo e addirittura riutilizzabile.

Alla ricerca di una mente abile cui affidare questa delicata operazione, la Barilla trova una personalità adatta in Erberto Carboni, un famoso grafico parmense trapiantato a Milano che aveva già realizzato per l’azienda alcuni calendari (1922 e 1938) e destinato a diventare l’unico artefice dell’immagine Barilla dal ’52 al ’60.

Il primo pack pensato da Carboni per la pasta Barilla (1952) mostra per l’intera gamma dei prodotti un fondo a righe bianco e blu di bahausiana memoria, una piccola finestra rettangolare attraverso la quale il consumatore non ancora abituato al pacchetto chiuso può vedere il prodotto e il marchio Barilla scritto in corsivo sullo sfondo di una ellissi rossa (fig.13): la coerenza d’immagine, la semplicità degli elementi e l’impianto ordinato sono caratteristiche tipiche dell’artista.

Nel 1956 il grafico rinnova tutte le linee dei prodotti, eliminando definitivamente le confezioni in cellophane (nonostante la rassicurante garanzia data dalla trasparenza) e scegliendo un blu marcato come colore unico del pacchetto, sul quale vediamo, per la prima volta, la pasta mentre sembra cadere dall’alto per posarsi su entrambe le facce della confezione (fig. 14).

Con Carboni le confezioni diventano protagoniste anche delle campagne pubblicitarie, ove il pacchetto con contrasti di scala diventa un comodo sedile per una donna al telefono o un acquisto voluminoso nella retina della spesa o modulo di costruzione per il castello di una bimba regina. Da allora ad oggi non esiste una pubblicità senza un’immagine della scatola sia nelle campagne a stampa che in quelle televisive: pacchetti di gigantesche dimensioni attorno ai quali i bambini fanno il girotondo (lo spot con Albertazzi - 1958) e su cui si sdraia in maniera voluttuosa Mina, o confezioni di dimensioni reali estratte dalle credenze delle famiglie italiane (la  serie di Bettina – 1964) o, infine, motivo ludico per il marito affamato appena tornato da un lungo viaggio in treno che addenta la confezione con ironia (1985) e per il cameriere russo che la nasconde dietro la schiena prima di mostrarla a due giovani italiani in un elegante ristorante vicino alla Piazza Rossa (1989). Negli anni ’90 diventa addirittura possibile entrare nella scatola (la serie il Mondo Blu): la macchina da presa si avvicina al pacchetto e trasporta lo spettatore nel blu della tradizione Barilla.

L’azienda è rimasta fedele sino ad oggi al blu, una scelta legata all’azzurro della carta per alimenti usata dai negozianti per avvolgere la pasta quando ancora si comprava sfusa: così la massaia che acquista pasta confezionata nel dopoguerra ha l’impressione di compiere un gesto simile a quello fatto alcuni anni prima, non sentendo la novità del pacchetto come elemento destabilizzante.

Analizzando le confezioni di pasta poste l’una accanto all’altra come il consumatore non le ha mai potute vedere (la scelta è caduta sulla pasta di semola e sul formato lungo, essendo troppo dispersiva un’analisi comprendente anche il formato corto e la pasta all’uovo) non emergono dal 1956 al 2000 cambiamenti rivoluzionari nel packaging, soltanto innovazioni legate alle necessità del mercato e alle strategie comunicative (fig. 15)

Carboni aveva creato un’opera di alta sintesi grafica, che, pur non offrendo in maniera gratuita (ma sottile) emozione, permetteva di riconoscere in maniera immediata la marca e rassicurava il consumatore sulla qualità del prodotto.

Nel 1969 arriva il progetto della Lippincott & Margulies innovativo sotto diversi punti di vista: il logo, diventato più piccolo perché Barilla è ormai una marca conosciuta, è stato portato in una “finestra” bianca a carattere informativo che presenta anche il nome del formato insieme al tempo di cottura e la pasta appare per la prima volta fotografata, nel momento della cottura, una scelta d’immagine legata ai Caroselli, nei codini dei quali comparivano gli attori pronti a gettare la pasta in pentola.

La TBWA nel 1984 sostituisce la fotografia della pasta appena gettata nell’acqua bollente con una in cui gli spaghetti appaiono già cotti in pentola, sebbene sia inverosimilmente sparita l’acqua.

Il 1985 è segnato da un’altra espressiva trasformazione nella fotografia: una forchetta lucente offre un boccone di spaghetti condito con un invitante sugo al pomodoro e connessa foglia di basilico -  dalla pasta cruda, a quella gettata in acqua e poi cotta in pentola si giunge, attraverso la forchetta che invita all’assaggio, all’appetibile momento finale del consumo. In questa realizzazione della Young & Rubicam il blu della scatola è diventato più intenso, un modo originale per sottolineare il successo dell’azienda rinforzando le proprie componenti d’immagine.

Completamente differente è la confezione ideata da Gio’ Rossi nel 1996: sono gli anni della lotta contro gli hard discount e il marchio, posto al centro della scatola, deve recuperare le grandi dimensioni degli anni Cinquanta per vincere la dura battaglia qualità-prezzo. Nessuna fotografia della pasta, ma una finestra in cellophane di circa 15 cm. di lunghezza che, permettendo al consumatore di vedere direttamente il contenuto, rassicura sulla qualità della pasta e da’ fondamento razionale all’acquisto.

Infine la  confezione databile al giugno 2000, realizzata da Mancini e Associati, riduce la finestra ad un rettangolo di 5 cm di lunghezza; a destra del pacchetto riappare, pronta per essere inghiottita, la forchettata di pasta fumante, identica a quella del 1985 sebbene di ridotte dimensioni, da ultimo il logo torna ad essere più piccolo e posto a lato della scatola perché il problema degli hard Discount è terminato. Barilla è da sempre indice di qualità.

 

Mulino Bianco

“Ti ricordi quei buoni biscotti che sapevano di burro, di latte e di grano? Domattina cercali al Mulino Bianco.” Così recita il primo annuncio, ideato da Landò e Mambelli, per il lancio di questo nuovo marchio: un nome disposto a parlare di genuinità e purezza, di tempi lontani e di sapori ormai perduti, caratteristiche emotive e concettuali proprie della comunicazione storica di quest’azienda nata nel 1975 come casa produttrice di biscotti.

Finisce l’epoca dei biscotti sfornati dalle nonne nei giorni di festa e inizia la fase del consumo giornaliero di questi dolci, che rispondono ad una concezione della giornata non solo fatta di pranzo e cena ma anche di colazione e di mille altri momenti in cui si ha l’esigenza, o piuttosto la voglia, di mangiare qualcosa di buono.

Ma la vera rivoluzione di Mulino Bianco è quella di infilare i biscotti in un sacchetto, il primo di piccole dimensioni, prima del quale i frollini più ricchi erano in scatola e i biscotti secchi in confezioni ad astuccio; il consumatore ne apprezza subito la semplicità e la comodità poiché eliminati i numerosi strati degli incarti tradizionali, si arriva direttamente al prodotto e si scopre il piacere di “frugare sul fondo per prelevare il contenuto”34.

Gio’ Rossi in relazione laperido in cui stava progettando l’innovativo sacchetto ebbe occasione di affermare: “O arrivo a matrici emozionali differenziali, oppure mi metto in fila con tutti gli altri e enon succede niente”.. invece qualcosa è accaduto perché in relazione la packaging, e non solo, Mulino Bianco ha veramente rivoluzionato il modo di pensare il biscotto.

Il tipico rumore che fa il sacchetto quando si riavvolge ricorda i cartocci in cui i fornai mettono ancora il pane e il giallo, scelto per la confezione, richiama alla memoria “ il colore della farina lattea, della pasta dei biscotti rubata alla mamma prima che vadano in forno, o dello zabaione”35: tutto risponde all’idea di tradizione caratteristica del Mulino. Lo stesso Gio’ Rossi racconta la scelta del colore fatta esplorando nel proprio passato: “Mi rifeci dunque a due ricordi cromatici della mia infanzia: uno era il cioccolato bianco, l’altro era uno sciroppo ricostituente che aveva questo colore ed era per me buonissimo”36.

Nacque così quel giallo paglierino divenuto familiare a tutti e ben riconoscibile negli scaffali dei supermercati: oltre al marchio, al nome dei biscotti e alla confezione, il colore stesso del sacchetto è diventato simbolo della saga Mulino Bianco, pronto a soddisfare la nostalgia del passato e il bisogno di valori autentici dimenticati nel mondo industriale.

 Il packaging in questo caso diventa il principale mezzo di comunicazione e narrazione intorno al prodotto: “Con Mulino Bianco si apre un modo diverso di comunicare. Il prodotto non viene solamente descritto o mostrato, viene piuttosto raccontato attraverso la costruzione di un mondo che assume la funzione di contesto ideale, di scena entro la quale l’attore-prodotto agisce e alla quale deve appartenere”37.

E’ proprio la favola ad emergere e a configurarsi come elemento comune d’ispirazione per tutte le confezioni: questo mondo irreale ha bisogno d’immagini naif (il Mulino), di decorazioni floreali (il logo del Mulino) e di un lettering leggermente decorativo (i nomi dei biscotti) (fig. 16).  Tratti che rivelano tutti la poesia del passato e dell’antico.

L’idea della fiaba è stata poi resa esplicita negli spot televisivi: i caroselli-filastrocca dove la mamma rievoca un mondo lontano che appare simbolicamente in poche spighe di grano (1976), la serie cosiddetta “rurale” con diversi spot ambientati in una campagna fatta di aie chiassose, cucine animate e vecchie tradizioni (fine anni ’70 - metà anni ‘80), i disegni animati con le microstorie del “Piccolo Mugnaio” e della “Bella Clementina” (anni ’80) e infine la saga della “Famiglia del Mulino” (primi anni ‘90). Questa volta è una famiglia moderna che va a vivere nel Mulino, riscoprendo la campagna e la sua storia come possibile scelta di vita alternativa alla città.

Gli ultimi esempi pubblicitari (2000/01) hanno abbandonato il “fiabesco” mondo contadino per scegliere direttamente la dimensione della favola: un grande libro con impresso il logo del Mulino in copertina si apre e per magia cominciano ad uscire personaggi ben riconoscibili tra cui Biancaneve, la Bella Addormentata e la Fata Turchina.

Il Mulino Bianco da  sempre contenitore di valori positivi  e di buoni sentimenti dona in maniera esplicita la possibilità di vivere la poesia del passato che si può cogliere non solo nelle scelte comunicative ma in tutte le tipologie di prodotto.

Un esempio significativo tra i tanti possibili credo possa essere rappresentato dai Dolcetti delle Feste, prodotti di raffinata pasticceria nati nel 198338, che si differenziano dai biscotti più semplici per l’originale confezione a torretta, al cui interno scopriamo piccoli involucri di carta pieghettata contenenti ciascuno cinque biscotti: una porzione da tenere in mano, ricordo delle vecchie scatole di latta dove i dolci erano avvolti in cartigli simili a questi. L’immagine in primo piano dei biscotti è accompagnata sui pacchetti da una breve storia, che molto contribuisce a creare un’atmosfera mitica attorno ai “dolcetti più innocenti”, come sono definiti nella campagna pubblicitaria. I Baiocchi sono così raccontati: “Nel mondo contadino il giorno dei baiocchi era quello in cui si vendeva il raccolto e si raccoglievano i frutti di un anno di lavoro. In quel giorno si faceva festa grande e si preparavano i dolcetti più ricchi dell’anno”. Per i Ciocchini si legge: “Ciocco veniva chiamato in molte campagne il contratto stipulato tra un proprietario e un mezzadro per lo sfruttamento di un pezzo di terra da coltivare. Il giorno del Ciocco il contadino si recava a casa del proprietario e iniziava con lui la trattativa secondo un preciso rituale. Si racconta che per l’occasione le donne preparassero dei dolcetti particolari, ricchi e golosi, pieni di pezzetti di cioccolato”. Siamo calati in un mondo lontano e quasi irreale… emerge nuovamente la dimensione della fiaba.

 

Perugina

“La Perugina-Cioccolato e Confetture”, questa la ragione sociale scelta nel 1920 dove rispetto all’atto di nascita - “Società Perugina per la fabbricazione dei confetti”(1907) - si pone l’accento sul prodotto che ha segnato tutta la storia successiva dell’azienda: il theobroma cacao, alla lettera “cibo degli dei”, o come viene comunemente chiamato, il cioccolato.

Un prodotto spesso penalizzato in quegli anni a causa del basso livello economico che porta a concentrare le spese su alimenti di prima necessità, eliminando gli eccessi o quelli che sono considerati generi di lusso, dal prezzo troppo elevato, come accade per il cioccolato gravato da forti tasse sulle materie prime che lo compongono.

La Perugina tenta di diffondere in Italia con notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei il concetto di cioccolato in quanto alimento dalle alte proprietà nutritive, che può trovare il giusto spazio anche sulle mense meno abbienti: nasce la tavoletta Luisa con il contenuto proteico pari a quello di un pollo, come recitava un celebre slogan pubblicitario della fine degli anni Venti.

Il 1922 è l’anno storico che vede la nascita del prodotto più celebre, quello con cui ancora oggi viene identificata l’azienda: il Bacio.

Il nome39, il famoso cartiglio e la scatola stessa con la sagoma dei due innamorati scelti da Seneca in esplicita relazione al quadro di Hayez (Il bacio, 1859) hanno contribuito a creare un notevole immaginario intorno al cioccolatino, diventato un messaggero d’amore capace di superare negli anni tendenze e mode. La scatola stessa si presenta come un “abito” indovinato ed elegante, un capolavoro di design, che ha mostrato la sua forza rimanendo pressoché inalterata per anni: una coerenza d’immagine resa possibile dal successo ottenuto (fig.17).

Il packaging in questo caso è stato uno strumento basilare per il successo della marca, che ha saputo creare anche confezioni alternative in relazione alle congiunture storiche e ai differenti bisogni dei consumatori.

Negli anni settanta, in conseguenza della guerra del Kippur (1973) che determina in Europa una forte crisi economica in relazione alla quale le aziende sono costrette ad investire in prodotti dai prezzi più contenuti, nascono i fortunati Bacetti, cioccolatini da banco offerti in scatoline ideali per l’acquisto d’impulso e l’autoconsumo (fig.18); nel 1981 appare il ben più rivoluzionario tubo con lo scopo di raggiungere nuovi consumatori, i giovani, e di proporre un prodotto storico come il Bacio in una veste coerente con il target (fig.19). Gli anni Ottanta, segnati dall’estetica e dall’affermazione di sé, sono soprattutto gli anni dei giovani, soggetti difficili da interpretare cui bisogna rivolgersi con il linguaggio che loro appartiene, sebbene spesso possa apparire incomprensibile. “Tubiamo?”, scaturito dalla forma della nuova confezione, diventa, nel gioco implicito tra lo scambiarsi i cioccolatini e l’amoreggiare come fanno i piccioni, un messaggio particolarmente adatto a tradurre il modo libero e scanzonato con cui l’amore è sentito dalle ultime generazioni40.

Queste innovazioni ben dimostrano che il Bacio non abbia voluto essere un prodotto da vendersi sfuso ma ben ancorato all’idea della confezione, capace da sola d’instaurare un dialogo con il pubblico in relazione anche all’importanza riconosciutale nelle scelte comunicative: elogiata dalle parole di Vittorio Gassman (1960-61) o celebrata dall’indimenticabile voce di Frank Sinatra (1962) diventa immediatamente una diva di Carosello, oltre che, negli stessi anni, una star del cinema dopo un’innovativa campagna promozionale, in occasione della quale il romanzo da cui fu tratto il film Love Story e la relativa colonna sonora furono venduti insieme ad una confezione di Baci Perugina.

Continua, in seguito, a recitare parti di primo piano, presentandosi nelle pubblicità televisive come elemento risolutivo di situazioni apparentemente critiche: scioglie la tensione del primo appuntamento tra due fidanzati imbarazzati (Valeria Ciangottini e Jean Sorel - 1966), riconcilia coppie in crisi, scandisce i momenti più felici d’ogni amore e non permette di dimenticare le ricorrenze.

Anche nei manifesti è riservato alla scatola uno spazio di primo piano grazie al quale essa diventa veicolo autonomo per la diffusione del messaggio: simbolo del prodotto stesso che non ha bisogno di nessun altro elemento per essere riconosciuto. Il packaging ha raggiunto un livello di protagonismo tale da superare in capacità evocativa ed emozionale il prodotto, come se avesse superato se stesso…la sua essenza...il suo contenuto.

 

Coca cola e Campari: la scelta  della bottiglietta

Non una qualsiasi bibita in lattina, ma la Coca-Cola nella bottiglietta.

Parlare di packaging sembra quasi riduttivo, perché si tratta di un vero capolavoro di design che ha attraversato un secolo senza subire alcun sostanziale cambiamento e ha conquistato diverse generazioni, diventando addirittura un pezzo storico ricercato dai più accaniti collezionisti.

Il 1916 è l’ufficiale anno di nascita in cui l’originale bottiglia viene ideata dalla Root Glass Company dell’Indiana, per rispondere alle esigenze di Benjamin Thomas41, che aveva richiesto “una bottiglia unica al mondo” in grado di essere riconosciuta da chiunque anche al buio (fig.20).

All’inizio la Coca-Cola era disponibile presso le “soda fountains”, vale a dire i banchi di bevande analcoliche diffusi nelle farmacie dell’Americana puritana di fine ‘800, solo successivamente con la rivoluzione della bottiglietta, che porta il prodotto ovunque, prima nel territorio americano poi oltreoceano,  diventa una bibita rinfrescante adatta ad essere consumata in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.

Questo contenitore passa attraverso vari accorgimenti tecnici e abili mani di designer prima di assumere quella forma inconfondibile che ricorda una silhouette femminile: si può definire una vera e propria evoluzione storica, della quale ci sono rimaste le testimonianze.

Oggi lo statuto è sicuramente mitico: la Coca-Cola è la bottiglietta e per proprietà transitiva la bottiglietta è la Coca-Cola, l’una non potrebbe essere senza l’altra.

 L’azienda, ben capito il valore che quel contenitore aveva assunto nell’immaginario collettivo, ha deciso di non modificarlo per quasi cent’anni, rimanendo fedele ad un’immagine dove forma e contenuto hanno raggiunto una simbiosi pressoché perfetta, di cui non esistono altri esempi.

Jean Pierre Keller42 approfondisce tale aspetto arrivando a tracciare un’identificazione tra la bottiglia da una parte e liquido, nome, grafica dall’altra: il profilo curvilineo della confezione richiamerebbe in primo luogo le bollicine della bevanda pronte a sprigionarsi verso l’alto all’apertura, poi il ritmo binario del nome dove vocali aperte e chiuse si alternano, infine la scrittura sinuosa del marchio fatta di profili concavi e convessi ad un tempo.

La longevità scaturisce dall’appartenenza “a due ordini formali apparentemente incompatibili: il funzionale e il decorativo”43, che hanno reso l’oggetto in grado di sedurre e di rispondere contemporaneamente alle esigenze pratiche di un contenitore per liquidi. Frutto di un geniale compromesso tra ragione e sentimento, la bottiglia, stessa ed unica confezione con cui la Coca-Cola è venduta fin dagli anni Cinquanta, attraversa indenne un secolo, capace ancora di destare lo stupore e il piacere di un oggetto totemico.

Sono le star di Hollywood a presentare con garbo il prodotto negli anni Trenta, quando sia l’azienda che il cinema americano sono all’apice del successo: la bibita, diventata diva, ha il potere di generare fantasiosi meccanismi d’identificazione. La bottiglia appare allora tra le mani di ragazze sempre deliziose e affascinanti o si trasforma in strumento ludico per un gruppo di amici che la utilizza in divertenti brindisi e in simpatici giochi (due bottiglie si trasformano per esempio in un binocolo), o diventa emblema di fratellanza in Hill Top (1971), spot televisivo dove giovani  di diverse nazionalità si prendono per mano in nome di un comune simbolo di riconoscimento: la bottiglietta è impugnata con la fierezza di chi stringe una fiaccola olimpica.

 

Il romanzo Campari si lascia leggere con facilità, attraverso la semplice descrizione dei prodotti che dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri ne hanno segnato la storia: il Cordial, il Bitter e successivamente il Campari Soda (formato da Bitter e Soda) si presentano come nuovi alcolici nella tradizione italiana fatta di grappe e vini, rispondendo tempestivamente all’allargato consumo di beni superflui da parte di nuove classi.

Vera novità soprattutto nei metodi di consumo è il Campari Soda, lanciato sul mercato nel 1932 con un’ampia campagna pubblicitaria44: un derivato del Bitter che, eliminato il cerimoniale di bottiglia, sifone e bicchieri, permette di gustare il prodotto con la disinvoltura di una bibita analcolica grazie alla piccola confezione monodose, igienica e pratica, al vetro smerigliato che facilita l’impugnatura e al tappo a corona che, a differenza del tipo a vite, suggerisce un consumo rapido e totale (fig. 21). La bottiglietta riprende le fattezze di un calice rovesciato che ritrova la sua identità nel momento in cui la confezione, capovolta, viene portata alla bocca: un omaggio al passato quando l’aperitivo si poteva bere solo in bicchieri di quel tipo nell’elegante atmosfera di un bar o di un importante ricevimento.

La forma sintetica e troncoconica, funzionale rispetto alle esigenze della produzione industriale, tanto da essere presentata nel volume “Disegno italiano - forma progetto e produzione” (1979) come tipologia di design innovativo, sembra richiamare la dinamica futurista, legame che viene esplicitamente confermato dalla testimonianza secondo la quale Davide Campari avrebbe partorito l’idea assolutamente originale del “calice rovesciato” (nel rovesciare c’è un esplicito riferimento al movimento come motivo ispiratore) a contatto con Fortunato Depero45, che già dalla metà degli anni Venti lavora come grafico per l’azienda (fig.22-23).

Oltre a Depero altri importanti nomi attraversano la tradizione pubblicitaria Campari da Dudovich a Capiello, ma sono i manifesti più semplici, quelli senza firma autoriale, a offrirci il migliore ritratto del Campari Soda sempre associato alla festa come momento d’interruzione dell’ordine, ossia d’evasione: una gita al mare, una passeggiata in montagna o una pausa dopo l’attività sportiva. La bottiglietta in sostanza è riuscita a rappresentare un nuovo costume del vivere civile.

 

Parmalat

“Osammo mettere il latte in carta. Ora appare più che scontato, ma non lo era negli anni ’60”- afferma Domenico Barili, il direttore delle attività commerciali dell’industria parmense.  Parmalat è la prima azienda italiana che comincia ad utilizzare il Tetrapak come imballaggio: si entra immediatamente a contatto con una realtà industriale che ha visto nella confezione la sua genesi.

Ciò che affascina non è soltanto l’idea di un contenitore a perdere, più pratico ed igienico della bottiglia a rendere, ma soprattutto la possibilità di fare un latte di marca perché su quell’imballaggio si può scrivere il nome del prodotto e del produttore: nel 1963 appare, ben riconoscibile nei negozi,  la confezione a sfondo bianco attraversata dal logo dell’azienda e dal disegno di un campanaccio realizzato dal pittore collechiese Cattani (fig. 24).

 In effetti fino agli anni Sessanta il latte gode di tanti contenuti ma di scarsa considerazione, è solo latte, tutto uguale e senza marchio, non ha immagine e Parmalat lavora proprio su questo: da prodotto per gente povera - “Cafelat” era il soprannome dispregiativo di chi, non avendo altre possibilità, risolveva la propria cena con una scodella di caffè, latte e pane - conosce un nuovo vissuto sociale attraverso l’innovativo packaging. Il cartone rende il latte indipendente da ogni vincolo, acquistabile ovunque (senza attendere l’arrivo del lattaio) e disponibile ad essere consumato con molta più facilità.

Il latte è diventato un prodotto e le costanti evoluzioni delle confezioni in linea con le novità europee lo dimostrano: nel 1964 esce il Tetrabrik, che dal punto di vista grafico resta fedele al campanaccio già utilizzato per la decorazione delle confezioni precedenti (fig.25), nel 1968 l’ancora più innovativo Tetrarex46, mentre negli anni successivi assistiamo soltanto a revisioni grafiche del marchio - linee progressivamente più morbide e aggraziate sia nel lettering che nel fiore -  in risposta alle differenti tendenze del mercato (fig. 26).

Infine Parmalat ci accompagna abilmente dal latte in carta al latte in plastica: Parmalat Soft Tecnology”, lanciato nel 1997 con Brevetto Internazionale di proprietà esclusiva, è  ottenuto con un innovativo processo di produzione e confezionato in una bottiglia di polietilene a triplo strato avente il pregio di conservare integre anche dopo il trattamento le caratteristiche nutrizionali e il gusto del latte fresco. La bottiglia, proteggendo il latte dall’aria e dalla luce, ne garantisce una conservazione ottimale e facilitata, anche durante il consumo, dalla perfetta richiusura del tappo. La tecnologia è entrata a pieno titolo nella vecchia favola del latte…

 

 

 



NOTE

1 Nella definizione di packaging aspetto funzionale e comunicativo si accoppiano, mentre nell’italiano imballaggio si rimane ancorati all’idea di contenitore destinato al trasporto o alla distribuzione. Se l’imballaggio resta pura copertura delle merci, il packaging acquista un valore aggiunto: assegna personalità al prodotto, diventando un abito significante capace di generare nel consumatore emozioni relative al proprio campo d’appartenenza.

2 Bucchetti Valeria alla voce “Packaging” in Storia del disegno industriale III, Milano, Electa, 1990, p. 368.

3 Raymond Loewy (1893-1986), uno dei padri fondatori dell’industrial design che ha mostrato le ampie prospettive d’applicazione di questa disciplina attraverso la realizzazione di opere molto differenti: la locomotiva T4 (1942), l’autobus Greyhound (fine anni Quaranta), il treno elettrico sperimentale Fairbanks-Morse (1945), esempi di packaging per uova, burro e dentifricio (1944-45), il redesign della Coca-Cola (anni Cinquanta) e il servizio per set di bordo dell’Air France (1973). Egli stesso riassume la propria filosofia del progetto con la sigla MAYA, “most advanced, yet accetable”: non certo profondamente intellettuale ma estremamente funzionale nella realizzazione degli oggetti. E’ difficile misurare l’impatto di Loewy sul nostro contemporaneo sviluppo, ma certo è stata una presenza dinamica e incisiva.   

4 Galdabini Cristina e Gros-Pietro Gian Maria, L’imballaggio al servizio della qualità della vita, in Cioccarelli Andrea, Frova Sandro, Galdabini Cristina, Gros Pietro Gian Maria, Mariot Claudia, Rapisarda Sasson Cristina, Libro bianco sull’imballaggio, Milano, Istituto Italiano Imballaggio, 1995, pp. 28-29.

5 Anceschi Giovanni e Bucchetti Valeria, Packaging alimentare, in Capatti Alberto, De Bernardi Alberto, Varni Giovanni (a cura di), Storia d’Italia. L’alimentazione, vol. 13, Torino, Einaudi, 1998, p. 883.

6 Sono i cosiddetti “contenitori autoriscaldanti”, pensati per raggiungere la temperatura ideale nell’ordine di qualche minuto e offrire al pubblico un prodotto consumabile lontano dall’ambito domestico. Le proposte riguardano alimenti liquidi, solidi e misti, ma per ora il prodotto di gran lunga più consumato resta il sakè, commercializzato in Giappone con dieci tipi di contenitori autoriscaldanti.

7 Galdabini Cristina, Gros-Pietro Gian Maria, L’imballaggio al servizio della qualità della vita, in Cioccarelli Andrea, Frova Sandro, Galdabini Cristina, Gros Pietro Gian Maria, Mariot Claudia, Rapisarda Sasson Cristina, Libro…, op. cit., p. 39-42.

8  Maldonado Tomas, Sul marchio, in “Rassegna”, n. 6 (aprile), 1981, p. 34.

9 Maldonado Tomas, Sul Marchio, art.cit., p. 34.

10 Karferer Jean Noel e Thoenig Jean Claude, La marque, op.cit., p. 115

11 Karferer Jean Noel e Thoenig Jean Claude, La marque, op.cit., p. 115.

12 Calabrese Omar, Cibo e cibi. Ideologia del fantasma alimentare in Album. Progetto mangiare, Milano, Bompiani, 1981, p. 56.

13 Lorusso Salvatore, L’imballaggio alimentare, Milano, Angeli, 1992, p. 15.

14  L’Università del Progetto di Reggio Emilia che ha ideato la bottiglia ammette di aver fatto riferimento ai flaconi dei medicinali come motivo ispiratore.

15 Valeria Bucchetti in Un materiale per l’involucro, in “Lineagrafica”, n.4 (luglio), 1990, pp.32-39, distingue l’ “identificatore di prodotto” in cui l’imballaggio rappresenta in maniera inequivocabile un unico articolo, dall’ “identificatore di genere” che si limita a classificare la forma della bottiglia di champagne o il tetraedro usato negli anni Sessanta per il latte.

16  Bucchetti Valeria, La messa in scena del prodotto, op.cit., pp. 122-126.

17 Frida Doveil, La materia nuda, in “Modo”, n. 113 (aprile), 1989. p. 43.  

18 Enrico Finzi, presidente di Astra e Demoskopea, ha presentato al convegno “Packaging o prodotti?”, organizzato dalla Pro Cartoon Italia il 04 Febbraio 1999, una ricerca sulla percezione del cartoncino presso gli utilizzatori, definendolo un materiale “ trendy”.

19 Manzini Ezio, La materia dell’invenzione, Milano, Arcadia, 1986, p. 33.

20 Bucchetti Valeria, Sulla scena della pubblicità, in “Lineagrafica”, n. 324 (novembre/dicembre), 1999, p. 43.

21 Anceschi Giovanni, Monogrammi e figure, Firenze, La Casa Usher, 1981, p. 11

22 Maldonado Tomas, Problemi attuali della comunicazione 1953, in Avanguardia e razionalità, Torino, Einaudi, 1974, p. 28.

23  Baudrillard Jean, Per una critica all’economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1964, pp. 88-92 (ed.orig. Paris, Edition Gallimard, 1972).

24 Barthes Roland, Il mito d’oggi, in Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1964, pp. 191-238 (ed.orig. Paris, Edition de Seuil, 1957).

25 Si stanno sviluppando confezioni che oltre all’organo visivo e tattile puntano sulla sollecitazione di altri sensi: involucri profumati e scatole che producono suoni. La confezione delle caramelle Daim riproduce lo scrocchio che la caramella fa quando è schiacciata tra i denti; la soluzione consiste in un’apertura ad andamento irregolare, zigzagante, presente su tutto il lato superiore della confezione (unita soltanto in alcuni punti disposti in maniera non casuale) che si apre alla pressione delle dita riproducendo il rumore desiderato.

26 Carlo Arturo Quintavalle in La Bella Addormentata. Morfologia e struttura del settimanale italiano, Parma, Università degli studi, 1972, p. XIV, afferma che “l’intera nostra cultura si presenta attraverso una forma fittizia che si può chiamare convenzionalmente imballaggio o carrozzeria”, allora l’imballaggio in quanto tale diventa esempio emblematico per cogliere i metodi comunicativi e i segni caratterizzanti tali metodi: una tautologia del pensiero dominante.

27 Quintavalle Arturo Carlo, La Bella Addormentata. Morfologia e struttura del settimanale italiano, Parma, Università degli Studi, 1972; Quintavalle Arturo Carlo, Lei & Lui. Cronaca e pubblicità, Roma, Laterza, 1981; Quintavalle Arturo Carlo, Introduzione a Il rosso e il nero. Figure e ideologie in italia 1945-1980, Milano, Electa,

28 Quintavalle Arturo Carlo, La Bella.. op. cit., pp. LXVII-LXVII.

29 Adorno Theodor Wiesegrund, Minima Moralia, Torino, Einaudi, 1954, p. 245 (ed. orig. Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951).

30 Munari Bruno in Da cosa nasce cosa: appunti per una metodologia progettuale, Milano, Laterza, 1981, intitola un capitolo “Compasso d’oro a ignoti”, volendo indicare con questa definizione la realizzazione d’oggetti pienamente funzionali ancor prima che si usasse il termine design: la scatola del latte, la busta della spesa, la sedia a sdraio, il leggio a tre piedi, la lampada per il garage.

31 Nicolas Appert, pasticciere francese che, presa coscienza del a acausa del proprio lavoro della veloce deperibilità dei cibi, realizza nel 1789 un sistema – detto di papertizzazione – in cui le sostanze sterilizzate sono chiuse in contenitori di vetro poi sottoposti all’azione dell’acqua bollente

32 La “Packaging Valley” oltre un’espressione pubblicistica coniata da esperti californiani è una realtà produttiva effettiva i cui confini abbracciano l’Emilia occidentale, la Romagna e parte del Mantovano con capitale Bologna, città che nel secondo dopoguerra diventa leader nella progettazione  e realizzazione di macchinari per confezionamento, dosatura e imballaggio.

33 De Fusco Renato, Il progetto del design, Milano, Etaslibri, 1992, p. 249.

34 Bucchetti Valeria, Un’immagine globale, in Barilla. Cento anni di comunicazione, Parma, Barilla, 1990, p. 321.

35 Rossi Gio’, Giallo come il cioccolato, in Barilla…, op. cit., p. 294.

36 Rossi Gio’, Giallo come il cioccolato, in Barilla…, op. cit., p. 294.

37 Bucchetti Valeria, Un’immagine globale, in Barilla…, op. cit., p. 317

38 Sono gli stessi biscotti, oggi diventati mini, contenuti in piccoli sacchetti: una confezione da un lato più semplice rispetto al pacchetto verticale che comincia a mostrare intorno agli anni Novanta segni di stanchezza e dall’altro più adatta al consumo occasionale e furtivo dei biscotti.

39 Il nome fu ideato da Giovanni Buitoni che aveva inizialmente pensato ad un meno romantico “cazzotto”, traendo ispirazione dalla forma tondeggiante guarnita da una nocciola che poteva effettivamente ricordare un pugno chiuso.

40 In questo caso confezione e messaggio pubblicitario si fanno portatori del medesimo concetto: un tubo che diventa motivo ludico, il “tuboroscopio”, o protagonista di giochi di parole, “Impara il linguaggio dei Tubi. Così gli altri non capiranno un tubo”.

41 Benjamin Thomas e Joseph B. Whitehead avevano ottenuto, nel 1899, la concessione di imbottigliare la bibita in tutti gli Stati Uniti per la modesta cifra di un dollaro, che tra l’altro Candler, allora Presidente della Coca-Cola, non incassò mai.

42 Keller Jean Pierre, Il mito Coca-Cola, Milano, Eléuthera, 1987, pp. 61-66 (ed. orig. Ginevra, Editions Noir, 1980).

43 Keller Jean Pierre, Il mito…, op. cit., p. 53.

44 La Domenica del Corriere, famosa rivista milanese, ospita la prima pubblicità del Campari Soda il 10 luglio del 1932.

45 Un dato evidente nelle pubblicità realizzate da Depero per la Campari è la propensione al disegno di forme geometriche soprattutto coniche.

46 In questa fase procede alla creazione grafica l’architetto Coppola di Milano, realizzando il famoso logo dell’azienda, il fiore a più punte, rimasto invariato a parte qualche leggera revisione fino alla Seconda metà degli anni Settanta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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